martedì, febbraio 27

Lunch bag

27.02.2027





Ricorda quando si spaccava la testa sui libri per finire gli esami in tempo e lui le rammentava di mangiare e che non poteva andare avanti a soli caffè. Ricorda quando venivano mà e pà e se pure in casa non ci stavano tutti il pranzo la domenica aveva sempre lo stesso odore, rassicurante, conciliante come le cose buone della vita, quelle che valgono davvero di essere vissute pienamente. Pensava non lo avrebbe mai più sentito quell'odore, poi però dopo aver preso insulti per tutta la mattinata ingoiando merda fino ad averne abbastanza, una busta di carta e il pranzo al sacco. 
Di nuovo quel buon odore che sa di casa.


Hey! Hey! Hey!
I don't like walking around this old and empty house
So hold my hand, I'll walk with you my dear
The stairs creak as I sleep,
It's keeping me awake
It's the house telling you to close your eyes
And some days I can't even trust myself
It's killing me to see you this way
'Cause though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore
Hey! Hey! Hey!
There's an old voice in my head
That's holding me back
Well tell her that I miss our little talks
Soon it will all be over, and buried with our past
We used to play outside when we were young
And full of life and full of love
Some days I don't know if I am wrong or right.
Your mind is playing tricks on you my dear
'Cause though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore
Hey!
Don't listen to a word I say
Hey!
The screams all sound the same
Hey!
Though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore
You're gone, gone, gone away,
I watched you disappear
All that's left is a ghost of you
Now we're torn, torn, torn apart,
there's nothing we can do,
Just let me go, we'll meet again soon
Now wait, wait, wait for me, please hang around
I'll see you when I fall asleep
Hey!
Don't listen to a word I say
Hey!
The screams all sound the same
Hey!
Though the truth may vary
this ship will carry our bodies safe to shore
Hey!
Don't listen to a word I say
Hey!
The screams all sound the same
Hey!
Though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore
Though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore
Though the truth may vary
This ship will carry our bodies safe to shore

giovedì, febbraio 22

Numero sconosciuto

21.02.2027
Ha promesso che avrebbe dormito dopo il goccetto condiviso con Darius ma proprio non ce la fa. Fissa il bicchiere, oscillando quel poco che resta di liquore ambrato, movimenti ipnotici del polso, pieni, morbidi. Sospira ripassando nella testa ogni fotogramma delle dita dell'uomo mentre le ricuce il buco nel braccio, ripassa e sottolinea gli errori che segna su di un blocchetto "per la prossima volta". Stenta a tenere la testa dritta ma una parte di lei è lucida da far schifo e vorrebbe davvero farla smettere di rimuginare ma nè gli antidolorifici, troppo blandi, nè l'alcol aiutano. Per questo dormire non è un'opzione valida, si conosce abbastanza bene da sapere che se abbassasse la guardia lascerebbe loro campo libero. 
Un brivido la fa sobbalzare sulla sedia. Sgrana gli occhi e si guarda attorno, per un solo istante le è parso di sentire tutte le grida della sera prima. Gli uomini agonizzanti oltre qualsiasi possibilità di soccorso, le urla della Patriot bionda nella nebbia viola, la voce metallica della ragazza col buco nella spalla e i poteri, quella canzone sussurrata tra le grida di dolore e paura. Si alza di scatto, buttandosi la giacca addosso nonostante i punti inizino a tirare e dare fastidio, prende le chiavi del pickup, infila il revolver nei jeans e si incammina fuori dalla clinica, litigando con lo zippo e le sigarette. Marcia accanto l'auto e si allontana a piedi, sapendo che con tutto quello che ha assunto per dominare sè stessa, finirebbe con molta probabilità contro un palo o peggio. 
Cammina e per un attimo solo la sfiora la voglia di passare dal Ruin, andare a trovare Routh ma poi ricorda che lei non c'è più e che dovrà campare con l'ennesimo debito non saldato. Allora riprende a camminare fino a che la stanchezza non diventa nausea e il dolore qualcosa di persistente, un sottofondo in cui naviga il cervello. Cammina fino a che il corpo non entra in modalità automatica  avanzando per inerzia e la mente semplicemente si spegne. E' in quel momento che trova la forza di cantare. Da ragazzina non faceva altro ma ha gradualmente smesso perchè di esternare quello che sente ha imparato a farne a meno, o a cercare di nascondere quanto più possibile la debolezza dietro una determinazione fastidiosamente feroce. Lungo le strade parallele alla Ghost Road lascia che una delle sue canzoni preferite le scivoli tra le labbra, la voce roca, priva di enfasi almeno sulle prime note.

We are proud individuals living on the city
But the flames couldn’t go much higher


Ha sempre camminato un sacco per scaricare il nervosismo, la frustrazione, la rabbia. Può sopportare un proiettile nel braccio, i punti a crudo, ma non riesce a sopportare di restare impotente, di non poter fare, che le venga impedito di agire. Da qualche parte in lei c'è qualcuno che le ricorda che non può salvarli tutti e di certo ieri sera non avrebbe potuto fare nulla per quegli uomini, le loro grida, l'orrore. Ma non si accontenta. Non riesce semplicemente ad accettare di non avere la forza di fare di più.

Oh, that’s life
Left dripping down the walls
Of a dream that cannot breathe
In this harsh reality


La realtà è uno schiaffo costante, un muro che prende a testate costantemente. Come il venire a patti con lo stare tra l'incudine e il martello, consapevole che presto o tardi diventerà un ostacolo per qualcuno e dovrà guardarsi le spalle anche da quelli con cui, fino ad ora, ha mantenuto i patti chiari. Si guarda attorno, lo sguardo docile inquadra i segni, la strada la conosce e la segue, testa bassa, impattando la spalla sana con la gente, evitando per un soffio di puro istinto quelli che rischiano di schiantarsi con quella ferita. Sale le scale a due a due, allungando la mano sulla vernice scrostata, toccando le bolle, i graffi prima di far impattare le nocche. Tira su col naso, vacillando sulle gambe incerte e quando le viene aperto perde l'equilibrio con la sicurezza e la fiducia di chi sa che se anche arriva a baciare il pavimento non farà mai male come quello che ha provato assistendo impotente alla morte di persone, stronzi, senza dubbio, ma pur sempre persone.

From which we’ll rise over love
Over hate
From this iron sky
That’s fast becoming our minds
Over fear and into freedom
You just got to hold on!

Le gira la testa, il braccio fa male ma non fa una piega, ha imparato a gestire il dolore, ignorarlo e passare oltre, come ha fatto la sera prima. Non si pente di aver scansato Flare dalla traiettoria del proiettile, prendendoselo al suo posto, non le ha dato fastidio venire richiamata, sgridata per l'ennesimo colpo di testa, così come non si è risentita di come le abbiano ricordato che sia "Solo un medico", infatti è quello che è, orgogliosa di esserlo, dannatamente fiera. 

To those who can hear me, I say, do not despair

The misery that is now upon us is but the passing of greed
The bitterness of men who fear the way of human progress
The hate of men will pass, and dictators die
And the power they took from the people will return to the people
And so long as men die, liberty will never perish
Don't give yourselves to these unnatural men
Machine men with machine minds and machine hearts!
You are not machines, you are not cattle, you are men!
You, the people, have the power to make this life free and beautiful
To make this life a wonderful adventure

Le braccia di Ryan l'accolgono al volo, abituato a farle da cavalier servente. Vede le sue labbra muoversi, legge la preoccupazione nei suoi occhi ma la verità è che ha solo bisogno di dormire e ha paura di farlo. Lui non ci pensa due volte a tirarsela in braccio, chiudere la porta con un calcio e portarla a stendere sul letto. E' conciliante, è soffice, il profumo familiare, di qualcuno di cui fidarsi senza sconti, senza timore, una lealtà fedele come quella dei cani, reciproca come può essere in un branco, per quanto ormai siano solo rimasti in due, solitari e sparpagliati rispetto a quelli che erano un tempo. Lo trattiene, le dita impigliate contro la felpa degli Eagles. Lotta contro di lui per non farlo andare, nonostante paia solo volersi premurare di prenderle qualcosa, lei insiste, le dita si fanno d'acciaio, se lo tira addosso cedendo terreno all'unico modo che ha di tenerselo vicino, ora, lì. Schianta la bocca contro la sua, lo assapora avida, bisognosa fino a che tutto si scioglie e diventa fluido, lontano come la musica che sfuma.

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Quando il cellulare le suona si rotola nel letto, impigliata tra le lenzuola. Numero sconosciuto.

Ciao carissima. Tu non mi conosci ma io conosco a te, sono Phantom Quartz. Senza perderci troppo in chiacchiere, c'è un vigilante ferito nella discarica di Philadelphia. Ha un polmone perforato... immagino non sarà un problema per te recuperarlo e dargli una riassestata.
- Shit!

Le chiavi sul tavolo, l'angelo le ha parcheggiato il pick up sotto casa sua, il biglietto appeso alla porta perchè qualcuno dei due deve avere turni e orari normali. Quando arriva alla discarica di gente ce n'è tanta da recuperare, il polmone perforato è un problema. La strada da lì a Groundwaters è un battito di ciglia.

And we’ll rise over love
And over hate
Through this iron sky
That’s fast becoming our minds
Over fear
And into freedom
Into freedom!





venerdì, febbraio 16

Sotto terra

14.02.2027
Rannicchiata nell'ufficio della clinica su Ghost Road tutto è immobile e silenzioso. Jen ha staccato da un paio d'ore lasciando lei in controllo ma è relativamente quieto. Il cellulare messo su silenzioso è in carica, con lo schermo rivolto verso l'alto. I talloni appoggiati sulla sedia, sono ore che sta leggendo formulari chimici, elenchi di medicinali, prontuari medici. Ha promesso a Matt che avrebbe trovato una soluzione per il suo problema, anche se non è il suo campo. Scaccia l'immagine di quel maledetto pupazzo con l'aiuto di caffeina e zuccheri, mentre prende appunti, segna cose da comprare, altri libri da consultare. Non è semplice, ma i farmaci l'hanno sempre interessata e pare che una conoscenza approfondita sia una buona cosa da quelle parti soprattutto visti i prezzi dei medicinali di base a Groundwaters. Non era una schiappa in chimica, per un certo periodo ha anche pensato di scegliere farmacologia ma Nan non glielo ha permesso. Doveva diventare medico, per la famiglia, per sè stessa. Le bruciano gli occhi per quanto ha letto, la luce non è ottimale e la postura da topo di biblioteca non l'aiuta di certo. Il silenzio che la circonda è irreale, può quasi sentire battere il suo stesso cuore se si concentra abbastanza, ma quello che la fa saltare dalla sedia è un battito di ben altra natura. Un rintocco ritmato, metallico che le spedisce un brivido irrequieto lungo la schiena nemmeno avesse davanti Teodor. La chiacchierata della mattina con Matt l'ha profondamente turbata e non è un mistero, le malattie mentali l'atterriscono, sia perchè non ha gli strumenti per rimediare a certi mali, sia perchè sono imprevedibili. Ha visto cose giustificate dalla pazzia che preferirebbe non ricordare. Il suono non smette, ad intervalli regolari riprende rassicurandola della sua assoluta veridicità. Gli occhi verdi dietro gli occhiali ruotano a puntare la porta. Ha visto troppi film dell'orrore e letto troppe notizie spiacevoli per non aspettarsi il peggio, motivo per cui, Little Surprise alla mano, spinge il naso fuori dalla porta dell'ufficio per cercare di capire da dove provenga quel rintocco metallico. Si acciglia vistosamente, guardando le stanze deserte, tendendo l'orecchio verso la porta sul retro che conduce alle scale interne del palazzo, una via d'uscita alternativa che porta ad un livello strada differente dall'altro lato dell'edificio, ben nascosto. Ruba la torcia dal cassetto dell'ufficio, la batte contro il palmo della mano come si fa per controllare se le batterie sono ancora all'interno, il cielo solo sa perchè ma è un istinto naturale come allargare il braccio verso il lato passeggero quando freni di colpo. Scivola fuori in punta di piedi trattenendo il fiato e fermandosi come in un gioco da bambini ogni volta che il suono si interrompe, come se lo sfruttasse a copertura dei suoi stessi movimenti. Spinge il maniglione antipanico della porta sul retro, apribile solo dall'interno, per inondare il piccolo ambiente claustrofobico di luce artificiale a led. Si ferma, respira e spazia attorno, non è un segugio e il suo orientamento non è migliore di quello di molti altri motivo per cui deve prendersi del tempo per focalizzare bene da dove arrivi quella eco. Per un attimo le pare che scivoli fuori da una parete, quello dopo dal pavimento, alla fine punta il fascio di luce contro la parete crollata. Un brillio di riflesso tra le crepe ne attira l'attenzione: non aveva mai notato la presenza di un tombino lì. Si inginocchia a terra e appoggia l'orecchio, imitando gli indiani senza però avere alcuna coscienza di quello che combina. Di nuovo il suono rimbomba, sono vibrazioni che le carezzano la guancia e che lasciano intuire come possano provenire da lì sotto. Si acciglia un po', torna indietro per recuperare qualcosa con cui fare leva e scassinare l'accesso. La curiosità è una brutta bestia, le vittime dei film horror lo sanno.

- Se è uno scherzo di merda giuro che qualcuno me la paga... Gesù ora parlo anche da sola, ecco che si ottiene a conversare con i bacati di cervello.

Il suono della sua stessa voce ha qualcosa di confortante, fa sentire meno soli così come la presa sul calcio della pistola fa sentire molto più al sicuro. Per spostare il tombino le ci vuole un sacco di inventiva ma quando ci riesce resta profondamente delusa affacciandosi sull'apertura. Terriccio, rossastro, un paio di tubi che sporgono e si infilano a lato, praticamente una buca inutile senza nemmeno un contatore, una valvola. Sbuffa, tutta fatica sprecata apparentemente ma poi il rumore torna, e sembra spostato. Si acciglia, immerge la testa oltre il passaggio e scopre che c'è un tunnel in cui potrebbe strisciare e seguire qualche tubo ben oltre la zona crollata di macerie. Ci pensa un po', schioccando la lingua contro il palato di rinunciare non se ne parla così si cala all'interno, inzozzandosi di terriccio rosso per avanzare coi gomiti lungo lo spazio, spostando avanti la torcia che decide di spegnersi a metà tragitto, perchè scuoterla per controllare le batterie non basta e lo sanno tutti.

- Oh for fucks sake! Un fottuto classico. 

Cerca di strisciare indietro ma il terriccio è molle sotto le mani, cedevole e, all'improvviso, slitta direttamente giù, di muso, come in uno scivolo d'acqua, senza sapere se in fondo c'è l'acqua. Il tuffo non ha niente di piacevole, acque schifose raccolte dagli scoli delle strade attutiscono la caduta che le procura comunque una sequenza non ragionata di lividi sulla schiena. Si tira in piedi e si guarda attorno, la luce filtra da alcune grate e il rumore ora si fa improvvisamente più forte. La torcia, com'è giusto che sia, riprende a funzionare quando le percosse le fanno dimenticare di essere zuppa di schifo. Si fa trascinare attraverso un reticolo di cunicoli più o meno asciutti fino alla sorgente di quel suono.

- Tutto sto casino per un tubo di merda. Typical of you Cor.

Si lamenta recuperando una sbarra di metallo marcio con cui cerca di ruotare la valvola mezza saltata e spegnere il dannato ticchettio che arriva fino su da lei. Non ha idea di quanto sotto sia ormai, ma visto che c'è tanto vale porre fine al tormento. Poi il cigolio, qualcosa che si socchiude e lo sbuffo contro il viso che sa di chiuso e abbandonato come le porte delle cantine.

- I'm a fucking Goonie!

Si fa coraggio da sola, incitandosi ad infilarsi in un posto chissà dove, chiuso da chissà quanto tempo. Con la torcia illumina quello che a conti fatti pare essere un vero e proprio bunker, di chissà quale epoca passata. Un comparto centrale che si divide in tre zone, diritto, a destra e a sinistra. Le esplora tutte, per lo più sgombre a parte brande, armadi di metallo, quello che serve per tirare a campare il cielo solo sa quanti anni, se ben rifornito. Un dormitorio con quattro brande con i materassi stile militare ancora arrotolati e consevati sotto vuoto. Casse di acqua in scatola, cibo liofilizzato. Esplorando incappa in un pannello, la leva abbassata richiede un po' di gioco ma alla fine si attiva e la torcia diventa inutile. Un paio di lampadine saltano, ma le altre riescono a reggere. Lo storage ha tutto il necessario per farti sopravvivere attraverso un paio di guerre nucleari indenne e anche un sacco da leggere, tra vecchi manuali di sopravvivenza anche qualcosa di chimica e medicina in cui si perde, fino a che non ricorda di essere zuppa, infreddolita e sotto terra.



mercoledì, febbraio 14

Epiphany

13.02.2027
Le epifanie arrivano sempre quando meno te l’aspetti, o non sarebbero epifanie d’altronde. Per lei capita in momenti discutibili, per lo più legati a sregolatezza e mancanza di amor proprio. Di norma il copione prevederebbe lei a sostenere la fronte di qualcun’altro, brilla abbastanza da riderne ma non sbronza abbastanza da finire per collassare a propria volta. Da che il fratello e i suoi compari l’hanno battezzata nell’alcol non ha mai perso completamente il controllo se non in rari casi e a quanto pare qualcosa l’ha spinta fin oltre il limite. Spalancando gli occhi verdi, acquosi e arrossati per lo sforzo, si affaccia sulla tazza di porcellana di un appartamento nella North che non è il suo. Le dita callose le sorreggono la fronte, si impigliano tra i capelli mentre ricaccia anche l’anima tra le lacrime e la frustrazione. Di solito è lei a prendersi cura degli altri così, era il suo compito, il suo ruolo e trovarsi in quella situazione non fa che acuire il senso di insoddisfazione e fastidio. Svutata di energie e di forze si accascia come un sacco di iuta e viene prontamente raccolta, con la ritrosa rude dolcezza di qualcuno che non è affatto abituato a dover essere l’infermiere di turno. Un caffè nero e lenzuola che sanno di fresco sono un toccasana così come lo è l’assenza assoluta di domande, il silenzio comprensivo di chi ti conosce da una vita e non ha bisogno di sentirti parlare per sapere come stanno le cose.

Ha esagerato, lo capisce semplicemente da come le tremano le dita, da come le ginocchia stentino a reggerla, da come il battito cardiaco sia impennato. Ha esagerato e lo capisce dal sapore che le raschia in gola, non importa quanti caffè butti giù o quante aspirine prenda. Le tempie, quelle non perdonano, ha un dannato martello pneumatico nella testa e niente sembra riuscire a spegnerlo. Non si vergogna, di rannicchiarsi su di un letto che non è suo diritto occupare, così come non prova vergogna nel pietire braccia robuste entro cui nascondersi per soffocare le lacrime frustrate contro il cuscino che si sporca di trucco e che poi dovrà pulire. Odia essere vulnerabile e allo stesso tempo non riesce ad evitare di finire costantemente in difetto. Eccedere nell’alcol questa volta non le è servito. Non è bastata la sbronza a scacciare gli incubi, non trascina il corpo in un sonno senza sogni com’è successo per notti passate, tutte le notti passate da quando ha avuto il faccia a faccia con Matt che ancora la tormenta. Ha espresso i propri dubbi con sincerità a Darius, dubbi legittimi che nella sua testa filano come una storia già sentita da qualche parte. Non è abbastanza. Non lo può essere perchè lei non si sdoppia e quando cura lo fa lentamente, non ha la magia di Routh e, sopra ogni altra cosa, i mali della testa la spaventano da morire. Quando spalanca gli occhi è madida di sudore, un profilo incombe su di lei e la confusione viene subito annullata da un odore. La memoria olfattiva è qualcosa di meraviglioso, ha la capacità di evocare cose di cui si credeva di aver perso ogni traccia. Sbotta a ridere, nervosa mentre scivola via dalla stretta protettiva per infilarsi in bagno, buttarsi sotto la doccia e uscirne ripulita, almeno all’esterno.

Fa un ampio respiro ma le spalle sono curve, il peso al centro dello sterno lo sente agitarsi. Allunga la mano, la passa sul vetro appannato e si fissa in viso. Lo vede fin dentro le ossa, il male di cui le parlava la nonna da bambina. Una condanna, tramandata per generazioni, di padre in figlio, di madre in figlio. Annidata tra i geni di cui tanto fieramente si vanta con gli altri c’è quella malinconia che consuma, figlia di un popolo perennemente sconteto, insoddisfatto, che non dimentica mai i flussi migratori, le invasioni, gli abusi di governi la cui sovranità non è al popolo, l'aggregarsi in comunità che sono famiglie, che inseguono le radici e le piantano, infestanti come la gramigna in giro per il mondo. Però, nonostante l'abilità ad adattarsi, ad infestare resta sempre l'irrimediabilmente afflizione del mal di casa. Nan lo diceva sempre, quelli come loro sono destinati a soffrire, perchè è nel loro DNA. Non importa quanto diluito nel tempo sia il legame con la madre patria, l’Irlanda ti ruba un pezzo e se lo tiene stretto come una madre possessiva.
Nell’affacciarsi dal bagno contempla il profilo di Ryan e un ricordo la colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco.


Aveva 15 anni la prima volta che viaggiarono tutti oltre oceano e l'Irlanda non era nulla di quello che le avevano raccontato. Papà non faceva altro che abbracciare gente, stringere mani e caricare le bisacce della moto. L’MC era tutto raccolto poco fuori la periferia di Belfast; da ogni parte del globo motociclisti e pezzi delle loro famiglie, un’unica grande tribù accomunata principi solidi -a detta loro- e simboli stampati con l'inchiostro sulla pelle e con la stoffa sulla schiena dei gilet. All’epoca aveva una visione particolarmente romantica della vita dei membri maschili della sua famiglia. Era l'unica femmina del gruppo e la cosa non compiaceva affatto la nonna, ma lei non volle sentire ragioni. Fece il diavolo a quattro pur di andare con 'i ragazzi' a visitare gli amici e vedere quello di cui aveva sempre solo sentito parlare, nelle canzoni, nei racconti, il posto a cui tutti erano così dannatamente fieri di appartenere. Si sa però che i racconti e la realtà non sempre coincidono. La polizia era ovunque, i confini pattugliati, ma i pub erano pieni di musica e vitalità. Da Belfast dovevano raggiungere Dublino passando il confine in una processione che richiese non poche autorizzazioni, e lei avrebbe viaggiato con papà, come aveva promesso spesso ma mai fatto. Documenti sempre pronti per passare i blocchi, mazzette che passavano di mano in mano, una ragazzina che in qualche modo fungeva da imbonitore. Una mezza pinta di Guinness originale, sotto banco perchè ancora non aveva l'età era il suo premio inconsapevole di essere uno strumento agli occhi del padre, o semplicemente, preferiva già all'epoca non sapere e fingere che tutto andasse bene.
Per lei che era nata e cresciuta negli stati uniti non era semplice capire cosa ci fosse di così complicato nell'unire due pezzi di una sola piccola isola minuscola, il paese in cui è nata di stati ne comprende 52 di cui uno sparso nel Pacifico come briciole di pane e una fetta praticamente in culo all'Artico, la voglia di capire il perchè di barriere, posti di blocco, lingue e colori differenti la spinse ad interrogare uno degli amici di vecchia data di Mickey che stava con loro. Lo sguardo di biasimo che le riversò addosso una domanda innocente, portata senza riflessione e senza sfondo, a piantare il seme. E così fu che venne spiegato tutto. Da Cromwell e la tirannia, Orange Walks, Cattolici e Protestanti, Easter Rising, Original IRA, Collins, Lynch, Bloody Sunday, Bobby Sands, P-IRA, R-IRA, New IRA. Scissioni, bombe, morti, attentati. Case in fiamme, bambini e donne uccise. Abusi, soprusi, dolore ad una manciata di km da dove stavano loro. Comprese in quel momento perchè la nonna ripeteva che erano dei dannati, perchè le storie, quelle cupe di guerra e ribellione riuscivano a toccare le viscere, farle torcere nel fastidio dell'impotenza, scoppiavano di rabbia e incomprensione. Sentire sempre una sola campana, quella intimamente legata al senso di unione. Si ritrovò con i lacrimoni senza nemmeno capire perchè, la mano di papà sulla testa, una coccola come non ne aveva mai ricevute, che sapeva di consolazione. Colin era fiero dei suoi figli, della sua famiglia, ma le effusioni non erano da lui, non da quell'uomo alto e scuro, con troppe rughe per la sua età e gli occhi spiritati, densi di rabbia bruciante che lo ha consumato in fretta assieme al suo fegato.


Quella sera - lo ricorda improvvisamente - dormì accoccolata tra Mark e Ryan, aggrappata alle magliette di entrambi perchè la birra le faceva dondolare la testa e i racconti le diedero gli incubi. Ha sempre avuto il vizio di cercare qualcuno che scacciasse i suoi mostri, se non era papà era Mark, se non era Mark era Ryan, se non loro Cian. Gli irlandesi non sono fatti per stare soli, ma irrimediabilmente ci finiscono. E' la loro croce, il loro tormento. Quando riemerge dai ricordi si ritrova a specchiarsi nei suoi occhi scuri, il calore del corpo prossimo, l'odore della pelle, di una canna di troppo e il sapore di birra sulle labbra. Ha smesso da tempo di essere quella bambina, ma ancora riesce a farsi sorprendere dalle emozioni altrui, che sia rabbia, o paura, o desiderio. Il respiro, improvvisamente accelerato lo sente infrangersi contro il viso, l'attrito tra pelle e asciugamano gradualmente viene meno e quando tra le scapole sente premere debolmente lo stipite della porta del bagno chiude gli occhi, rilasciando la tensione. E' un attimo che quella tensione torna ad annodarle i muscoli: la stanza inondata dalle note di Sunday Bloody Sunday degli U2, la luce led dello schermo illuminato che spezza ogni equilibrio. Entrambi voltano la testa di scatto, perchè entrambi sanno cosa significa quella canzone. L'ha messa lui per lei, l'ha associata lui ad un numero che ha stentato a inserire in rubrica ma che si ostina a tenere nel portafogli. Le sue labbra si muovono, un debole 'Cannot catch a break' esasperato le fa arricciare un sorriso debole, colpevole mentre le bacia la cicatrice sulla spalla e lei scivola via, lanciandosi contro il comodino per recuperare il telefono ma il nome sullo schermo non è quello che si aspettava e il cuore le si spezza, ancora una volta, come infinite volte prima di quella quando si è permessa di sperare e di farsi illudere. Ringhia quando risponde e dall'altro capo si alza un muro indignato di silenzio.

- Che cazzo vuoi?
- ...
- God have mercy, Cian, che c'è?
- Ti sei dimenticata di chiamare, te l'avevo chiesto come favore personale.
- Shit... I... mi spiace
- Yeah, I know. Lo so che ti spiace, ma mai abbastanza. Listen, se non vuoi parlarne basta che lo dici.

L'urgenza le si infila tra le costole e stringe il cuore con dita gelide. Ruba una sigaretta dal pacchetto di Ryan e si chiude in bagno, seduta sulla tazza a discutere con il suo ex marito per non sa nemmeno lei quanto e quando riemerge, confusa e preoccupata si rende conto di essere di nuovo sola. Lui non c'è, lo ha letteralmente fatto uscire dalla sua stessa casa in cerca di una boccata d'aria. Ruba una felpa, un pantalone di tuta in cui navigano le gambe snelle che raramente mostra. Il brivido preoccupato viene presto scalzato da uno spiffero che le si arrampica lungo la cervicale e le fa finalmente notare che la finestra è aperta e le chiavi del pick up sono ancora appese al muro. Si infila sulla scala antincendio trovandolo sul tetto in maniche corte a sbollire l'ennesima delusione. Il sospiro le si annoda tra le labbra in cui affonda gli incisivi, lui evita di guardarla ma sa che è lì e alla fine si arrende richiamandola con un cenno come farebbe un padrone con il proprio cane dopo che gli ha distrutto casa e hanno litigato. 
Gli scivola in braccio a cavalcioni, affondando le dita tra le ciocche che ha scorciato sotto sua insistente richiesta, sforzando il suo viso affinchè lo sollevi per schiantare le labbra contro le sue, affondare un bacio morbido ma allo stesso tempo privo di quell'elettricità che è stata irrimediabilmente soffocata dal suono del cellulare. La presa sui fianchi è possessiva ma non affamata, gli occhi tornano a specchiarsi e la malinconia di lui colpisce nel profondo.

- I'm sorry.
- I know.
- I miss him.
- Me too.

Per la prima volta da quando si sono ritrovati parlano di lui apertamente, prima era solo sussurrato, legato ad episodi e rapidamente accantonato perchè la ferita fa male e non solo a lei. Il non sapere di norma è la sua regola per dormire sogni sereni, ma nel caso del fratello è costante, doloroso, logorio, un'emorragia a cui non riesce a porre rimedio, che non riesce ad arginare non importa cosa faccia. Dicono che nessuna notizia sia una buona notizia, ma non dopo una guerra come quella passata di cui ancora il mondo porta feroci cicatrici, non quando si tratta di un fratello, un patriota, un fuggiasco.

- Cosa voleva tuo marito?
- Ex
- Same thing, che voleva?
- Se ne vuole andare in missione
- You gotta be kiddin' me, e Liam?

Non ne vuole parlare. Lo guarda negli occhi e tace, ingoia il silenzio a bocconi amari e semplicemente gli si stringe addosso.

- Ci facciamo una birra?
- Non hai bevuto abbastanza?

Non ha tutti i torti. Sono troppe notti di fila che si addormenta solo per effetto dell'alcol e così non va. La resa le piega le spalle, gli scivola tra le dita con indolenza, trascinandosi a stento in piedi mentre lui finisce l'ultima sigaretta e lei striscia di nuovo dentro l'appartamento, allungandosi sul divano che ha coattamente occupato. Si schiaccia tra i cuscini, improvvisamente sottile, svuotata di tempra e resistenza, molle. Sente i passi scendere pesanti e far vibrare il metallo, il sospiro pesante, paziente, mentre la guarda e chiude la finestra. Il peso docile che le si abbandona accanto, che si addossa rubando coperta, insinuando la mano attorno alla vita per tirarsela possessivamente contro, cercare una posizione comoda per entrambi in un divano troppo piccolo e finisce per sorridere, ascoltare il respiro di Ryan che via via si fa lento, pesante, a mano a mano che sprofonda nel sonno e alla fine riesce a contagiare anche lei. Dorme, finalmente. Dopo giorni stancanti a lottare contro i suoi stessi limiti, dorme e non ha paura degli incubi perchè c'è qualcuno che li scaccia per lei ancora una volta.

domenica, febbraio 4

Una buona giornata, tutto sommato

03.02.2027
Riapre gli occhi sotto il peso di una coperta spessa che le grava sullo sterno. Ruota lo sguardo di lato, osservando la cannula che gocciola direttamente nel tubicino trasparente della flebo che le hanno attaccato quando è crollata per stanchezza e dolore. Si guarda attorno, non c'è nessuno ma voci filtrano dal corridoio e quando la porta si apre incrocia lo sguardo altrui e vi legge sollievo e rassegnazione al contempo.

- Non posso lasciarti sola dieci minuti che ti fai sparare addosso?
- Sorry, però ho fatto nascere un bambino, ne è valsa la pena.
- Ho visto, sei stata brava.

Arriccia un sorriso mentre dita ruvide, macchiate dal lavoro in officina, le pettinano indietro i capelli. Il colorito non è ancora il massimo, ma le hanno cambiato la fasciatura alla coscia e gli antibiotici tengono a bada le infezioni. Stanca lo è, ma ha l'energia ritrovata di chi ha fatto il suo stramaledetto dovere senza crollare se non quando tutto era finito. Di Sun non parla, preferisce tenere la cosa per sè, non coinvolgere persone che probabilmente non capirebbero. La fanno mangiare, la rimettono in sesto con un po' di coccole. A volte si comporta proprio come un cane, fedele, affettuoso e protettivo. Gli occhi torbidi sostano a lungo sul profilo altrui, soppesandolo con attenzione.

- Cosa?
- Non devi preoccuparti.
- Dimmelo senza un buco da proiettile in una coscia, mh?

La bocca schiusa, le parole incastrate in gola senza poter ribattere in alcun modo. Scoppia a ridere, costretta a dargli ragione. Fa male, ma è un dolore che può sopportare consapevole di aver protetto una donna, aiutato il suo bambino a venire al mondo, ricucito il fianco di una donna che dona la sua esistenza a cercare di epurare il mondo e la realtà dal lordume in cui si è immerso nel tempo. Ha il petto leggero, nonostante la stanchezza, il sorriso fiero di chi, nonostante tutto, ha riguadagnato la forza di fissare l'altra sè nello specchio e non farsi più così tanto schifo. 

- Mi passi i pantaloni?
- Te ne ho presi  altri, quelli li dobbiamo buttare. 
- Owhn, ma sono i miei preferiti...
- La prossima volta non tagliuzzarli per cavarti il proiettile ma sfilali.
- Er... all right.

Sbuffa e fa i capricci ma va meglio. Il dolore è sopportabile, certo, zoppicherà per un po' ma non è nulla che non abbia già vissuto. Si fa aiutare a scendere, rimasta in mutande osserva la fasciatura con soddisfazione. E' evidente che non sia opera sua, le voci fuori dalla stanza l'hanno già avvisata che i suoi due collaboratori sono arrivati. Infermieri di vecchia data, con tanta esperienza da far invidia anche ad un supposto medico. Infila i jeans un po' a fatica, sfruttando la presenza altrui come una stampella. Dipinge un sorriso birbante, lo sguardo da cucciolo si pianta, come fanno i cani mentre stai mangiando per pietire un boccone, pazienti, silenziosi ma ostinati. 

- Cosa vuoi?
- Mi porti in braccio a vedere le stanze?
- Che?!? Are you crazy? Non sono il tuo schiavetto.
- Pleeeeeeeeeeeease!
- Cor... e poi chi ti dice che abbiamo sistemato tutto?
- I know you far to well.

Il broncio che mette le strappa una risata, allunga il braccio per cingergli il collo e si lascia sollevare, trovando il riparo di braccia solide, il calore e il profumo familiare che lascia tracce addosso e si insinua sotto pelle. Nasconde il sorriso, il viso affonda contro la giacca in pelle e aspetta. Si sorprende da sola, aprendo gli occhi solo quando l'ha messa giù di nuovo. Sono solo mobili arrangiati, solo pareti ridipinte, pavimenti puliti e rivestiti, schedari vuoti e mobili chiusi a chiave. Le vetrinette sono organizzate meglio di come avrebbe fatto lei stessa. Le basta un'occhiata per capire la logica, medicinali in alto, garze, siringhe, strumenti sterilizzati. Tutto separato e allineato con metodo che scalda il cuore ad una come lei. L'entusiasmo la porta a saltellare, spedendo una scarica di dolore lungo la colonna vertebrale talmente feroce da farle vibrare i timpani che riecheggiano assieme alla sgridata che le arriva in coda. Stringe i denti, oscilla pericolosamente ma si regge in piedi con abilità d'equilibrista, soffiando una risata amara. Impiglia le dita tra le fibre della felpa altrui, aggrappandosi un po' per avviarsi ad esplorare le altre stanze. E' buio fuori, tardi la sera e la voce no si è ancora sparsa per cui può permettersi di rilassarsi. O almeno così pensava.

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La pistola al fianco ormai è diventata una necessità. A mali estremi ha optato per rimedi semplici, discreti e da utilizzarsi solo se costretti, ma c'è, e da sicurezza premura contro  le costole. Nel fumare una sigaretta rubata, al gelo e senza il cappotto, nel fremito di un brivido il brillio fioco di un core la richiama sull'attenti. La gamba pulsa, gli antidolorifici sono superflui e resiste, senza esitazione. Sono i colori a richiamarne l'attenzione. Il rosso e l'oro le fanno rilassare la linea delle spalle nel riconoscere Legion in avvicinamento. Ma è solo un attimo, la tensione torna a tenderla come una corda quando nota la luce vacillare, il passo incerto, le parti danneggiate. Vorrebbe scattare ma la gamba non glielo permette, trotta però, come un cane claudicante verso il padrone lo accoglie e finisce per incastrasi nella certezza che il pilota non sia un uomo, come aveva creduto fino ad una manciata di secondi prima, ma una donna. Non ha il tempo di stupirsi come dovrebbe, l'accompagna dentro e l'aiuta a svestirsi. Per il braccio rotto e il polmone collassato sa di poter agire, ma le costole e lo sterno richiedono uno spazio che non ha a disposizione, strumenti che non possiede -non ancora- non lì. C'è qualcosa che le punge la nuca, la consapevolezza di una sensazione, qualcosa di familiare che le fa incollare occhiate rapide e precise alla mascherina. L'incarnato, i capelli. La voce metallica non è quella diLegion ma c'è qualcosa di più. Poi la luce la colpisce come il proiettile del pomeriggio: inaspettato, involontario. Julia. La donna su cui sta lavorando è qualcuno che conosce, che si nasconde in un guscio metallico dalle fattezze maschili e tutto prende di senso. Il loro incontro al Pocket, il fatto che la conoscesse di nome. Aspira l'aria che comprime il polmone destro, la mette sotto ossigeno e la mette a dormire. Le controlla il respiro, le riduce la frattura mentre è sedata e caccia chiunque dalla clinica per restare a vegliare su di lei. Le mette il gesso, si assicura che resti coperta, che la febbre scenda. Mentalmente ripercorre ogni passaggio per rimetterla in sesto "se solo potesse" tutta la notte per tenersi occupata prima di iniziare a nascondere i pezzi della shell danneggiata in armadi chiusi a chiave. Ogni mandata è una promessa, di portare il segreto con sè nella tomba. Aveva promesso di non fare guai e ha già rattoppato due Vigilanti in un giorno solo. 

- Iris mi ucciderà.

Però non ci pensa, non ora. Deve occuparsi di Legion, assicurarsi che stia bene e stabile fino a che non la verranno a prendere per occuparsi delle ferite che non può curare lì. La frustrazione le serpeggia sotto pelle, ingoia i resti della cena fredda, legge uno dei vecchi libri che ha recuperato da dare ad Effie perchè possa avere strumenti per aiutarsi nell'apprendere il mestiere che non sia solo pratica, la diagnosi è importante anche nella teoria. La coscia le ricorda di non chiudere occhio, di restare vigile con la Little Surprise contro il fianco a vegliare e proteggere, solo per la notte. In fin dei conti, è stata anche una buona giornata.