domenica, febbraio 4

Una buona giornata, tutto sommato

03.02.2027
Riapre gli occhi sotto il peso di una coperta spessa che le grava sullo sterno. Ruota lo sguardo di lato, osservando la cannula che gocciola direttamente nel tubicino trasparente della flebo che le hanno attaccato quando è crollata per stanchezza e dolore. Si guarda attorno, non c'è nessuno ma voci filtrano dal corridoio e quando la porta si apre incrocia lo sguardo altrui e vi legge sollievo e rassegnazione al contempo.

- Non posso lasciarti sola dieci minuti che ti fai sparare addosso?
- Sorry, però ho fatto nascere un bambino, ne è valsa la pena.
- Ho visto, sei stata brava.

Arriccia un sorriso mentre dita ruvide, macchiate dal lavoro in officina, le pettinano indietro i capelli. Il colorito non è ancora il massimo, ma le hanno cambiato la fasciatura alla coscia e gli antibiotici tengono a bada le infezioni. Stanca lo è, ma ha l'energia ritrovata di chi ha fatto il suo stramaledetto dovere senza crollare se non quando tutto era finito. Di Sun non parla, preferisce tenere la cosa per sè, non coinvolgere persone che probabilmente non capirebbero. La fanno mangiare, la rimettono in sesto con un po' di coccole. A volte si comporta proprio come un cane, fedele, affettuoso e protettivo. Gli occhi torbidi sostano a lungo sul profilo altrui, soppesandolo con attenzione.

- Cosa?
- Non devi preoccuparti.
- Dimmelo senza un buco da proiettile in una coscia, mh?

La bocca schiusa, le parole incastrate in gola senza poter ribattere in alcun modo. Scoppia a ridere, costretta a dargli ragione. Fa male, ma è un dolore che può sopportare consapevole di aver protetto una donna, aiutato il suo bambino a venire al mondo, ricucito il fianco di una donna che dona la sua esistenza a cercare di epurare il mondo e la realtà dal lordume in cui si è immerso nel tempo. Ha il petto leggero, nonostante la stanchezza, il sorriso fiero di chi, nonostante tutto, ha riguadagnato la forza di fissare l'altra sè nello specchio e non farsi più così tanto schifo. 

- Mi passi i pantaloni?
- Te ne ho presi  altri, quelli li dobbiamo buttare. 
- Owhn, ma sono i miei preferiti...
- La prossima volta non tagliuzzarli per cavarti il proiettile ma sfilali.
- Er... all right.

Sbuffa e fa i capricci ma va meglio. Il dolore è sopportabile, certo, zoppicherà per un po' ma non è nulla che non abbia già vissuto. Si fa aiutare a scendere, rimasta in mutande osserva la fasciatura con soddisfazione. E' evidente che non sia opera sua, le voci fuori dalla stanza l'hanno già avvisata che i suoi due collaboratori sono arrivati. Infermieri di vecchia data, con tanta esperienza da far invidia anche ad un supposto medico. Infila i jeans un po' a fatica, sfruttando la presenza altrui come una stampella. Dipinge un sorriso birbante, lo sguardo da cucciolo si pianta, come fanno i cani mentre stai mangiando per pietire un boccone, pazienti, silenziosi ma ostinati. 

- Cosa vuoi?
- Mi porti in braccio a vedere le stanze?
- Che?!? Are you crazy? Non sono il tuo schiavetto.
- Pleeeeeeeeeeeease!
- Cor... e poi chi ti dice che abbiamo sistemato tutto?
- I know you far to well.

Il broncio che mette le strappa una risata, allunga il braccio per cingergli il collo e si lascia sollevare, trovando il riparo di braccia solide, il calore e il profumo familiare che lascia tracce addosso e si insinua sotto pelle. Nasconde il sorriso, il viso affonda contro la giacca in pelle e aspetta. Si sorprende da sola, aprendo gli occhi solo quando l'ha messa giù di nuovo. Sono solo mobili arrangiati, solo pareti ridipinte, pavimenti puliti e rivestiti, schedari vuoti e mobili chiusi a chiave. Le vetrinette sono organizzate meglio di come avrebbe fatto lei stessa. Le basta un'occhiata per capire la logica, medicinali in alto, garze, siringhe, strumenti sterilizzati. Tutto separato e allineato con metodo che scalda il cuore ad una come lei. L'entusiasmo la porta a saltellare, spedendo una scarica di dolore lungo la colonna vertebrale talmente feroce da farle vibrare i timpani che riecheggiano assieme alla sgridata che le arriva in coda. Stringe i denti, oscilla pericolosamente ma si regge in piedi con abilità d'equilibrista, soffiando una risata amara. Impiglia le dita tra le fibre della felpa altrui, aggrappandosi un po' per avviarsi ad esplorare le altre stanze. E' buio fuori, tardi la sera e la voce no si è ancora sparsa per cui può permettersi di rilassarsi. O almeno così pensava.

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La pistola al fianco ormai è diventata una necessità. A mali estremi ha optato per rimedi semplici, discreti e da utilizzarsi solo se costretti, ma c'è, e da sicurezza premura contro  le costole. Nel fumare una sigaretta rubata, al gelo e senza il cappotto, nel fremito di un brivido il brillio fioco di un core la richiama sull'attenti. La gamba pulsa, gli antidolorifici sono superflui e resiste, senza esitazione. Sono i colori a richiamarne l'attenzione. Il rosso e l'oro le fanno rilassare la linea delle spalle nel riconoscere Legion in avvicinamento. Ma è solo un attimo, la tensione torna a tenderla come una corda quando nota la luce vacillare, il passo incerto, le parti danneggiate. Vorrebbe scattare ma la gamba non glielo permette, trotta però, come un cane claudicante verso il padrone lo accoglie e finisce per incastrasi nella certezza che il pilota non sia un uomo, come aveva creduto fino ad una manciata di secondi prima, ma una donna. Non ha il tempo di stupirsi come dovrebbe, l'accompagna dentro e l'aiuta a svestirsi. Per il braccio rotto e il polmone collassato sa di poter agire, ma le costole e lo sterno richiedono uno spazio che non ha a disposizione, strumenti che non possiede -non ancora- non lì. C'è qualcosa che le punge la nuca, la consapevolezza di una sensazione, qualcosa di familiare che le fa incollare occhiate rapide e precise alla mascherina. L'incarnato, i capelli. La voce metallica non è quella diLegion ma c'è qualcosa di più. Poi la luce la colpisce come il proiettile del pomeriggio: inaspettato, involontario. Julia. La donna su cui sta lavorando è qualcuno che conosce, che si nasconde in un guscio metallico dalle fattezze maschili e tutto prende di senso. Il loro incontro al Pocket, il fatto che la conoscesse di nome. Aspira l'aria che comprime il polmone destro, la mette sotto ossigeno e la mette a dormire. Le controlla il respiro, le riduce la frattura mentre è sedata e caccia chiunque dalla clinica per restare a vegliare su di lei. Le mette il gesso, si assicura che resti coperta, che la febbre scenda. Mentalmente ripercorre ogni passaggio per rimetterla in sesto "se solo potesse" tutta la notte per tenersi occupata prima di iniziare a nascondere i pezzi della shell danneggiata in armadi chiusi a chiave. Ogni mandata è una promessa, di portare il segreto con sè nella tomba. Aveva promesso di non fare guai e ha già rattoppato due Vigilanti in un giorno solo. 

- Iris mi ucciderà.

Però non ci pensa, non ora. Deve occuparsi di Legion, assicurarsi che stia bene e stabile fino a che non la verranno a prendere per occuparsi delle ferite che non può curare lì. La frustrazione le serpeggia sotto pelle, ingoia i resti della cena fredda, legge uno dei vecchi libri che ha recuperato da dare ad Effie perchè possa avere strumenti per aiutarsi nell'apprendere il mestiere che non sia solo pratica, la diagnosi è importante anche nella teoria. La coscia le ricorda di non chiudere occhio, di restare vigile con la Little Surprise contro il fianco a vegliare e proteggere, solo per la notte. In fin dei conti, è stata anche una buona giornata.