lunedì, gennaio 29

Down to earth

29.01.2027 
Quando striscia di nuovo nel seminterrato del palazzo che ha scelto come luogo perfetto non ha più energie. Le ci vuole una manciata di minuti buoni per ricordare di accendere la torcia e quando lo fa la luce rimbalza su barattoli di latta pieni di pittura, travi e materiale edile trasportato lì da un poveraccio che ha ancora la pazienza di inseguire le tracce di un sogno sbiadito con lei. Si trascina fin dentro uno dei piccoli bagni di servizio, la luce filtra a malapena dalle feritoie che fungono da scarsa e fatiscente illuminazione lì sotto, per cui la torcia è la via più facile per specchiarsi e constatare, tra le macchie di ruggine, che i segni delle dita di Victor sulla gola sono là, belli evidenti sulla pelle chiara. Rischia la gola e sputa, ma non con disprezzo o disappunto quanto più per esorcizzare il senso di compressione e nausea che le pesa sullo sterno.
Struscia le suole degli anfibi sul pavimento e si rannicchia lì, accendendo il fornelletto per farsi un caffè annacquato ma necessario. Quando cerca di accendere la fiamma con un fiammifero le dita le tremano. La sente arrivare, risale con prepotenza e le si abbatte sulle spalle: paura. Quella che non ha mostrato prima, quella che è la sua più fedele compagna di viaggio, che ha imparato ad attendere il momento giusto per reclamare il pegno. Si rannicchia, imbambolata in un sacco a pelo spesso e ruvido e piange, lì sotto dove nessuno può sentirla e l'altissimo può vederla per giudicare la sua debolezza.

La prima vera volta che ha sentito quel morso bruciante era ormai decisa a gettare la spugna e tornare a casa con la coda tra le gambe. La Sierra Leone non faceva per lei, lottare per le cose più basilari, la miseria, la fame erano una realtà che la prendeva a schiaffi quotidianamente. Non che venisse da una famiglia agitata ma laggiù anche il c'era meno di niente e troppo da fare. Quattro mesi, ad addormetarsi piangendo, svuotata di energia, senza riuscire a tenere che poco o nulla nello stomaco l'avevano messa a dura prova. Aveva scelto di andare spontaneamente e l'avevano avvisata che non sarebbe stato facile e non sarebbe potuta tornare indietro prima di quattro mesi se avesse cambiato idea ma lei non gli aveva creduto. Aveva rinunciato una volta sola in vita sua e le era bastato. Però, la vita nelle sue sfumature più crudeli e spaventose riserva sempre qualcosa di inaspettato. La capacità dell'uomo di essere brutale e feroce, di abusare e dominare non è propria di nessun altra creatura generata dal signore, ma lì tutte le leggi più scontate diventano aleatorie, non si gioca più con lo stesso mazzo di carte né con le stesse regole e se non lo impari presto ti divorano pezzo pezzo. Un medico che non ha mano ferma è inutile, un medico accecato dalle sue stesse lacrime è patetico, un mero peso di cui liberarsi.
Però poi scatta. È un momento nella vita di tutti, quello in cui qualcosa si spezza. Per lei è arrivato di notte col tremare della terra, un colpo di mortaio, l'odore di nafta e di carne che brucia. Durante la grande guerra i medici mettevano la croce sugli elmetti per evitare di venire cecchinati, poi in qualche momento storico, l'umanità ha deciso che le croci rosse fossero il modo migliore per richiamare il fuoco, che fosse più semplice colpire dove si era più visibili. L'ospedale era un groviglio di tende che scintillavano di lucciole infiammate, le grida sconnesse riempivano le orecchie assieme al fischio persistente di quell'unico colpo impietoso ma dannatamente preciso. Ha ammassato cadaveri e feriti fino a non sentire più le braccia, fino a non percepire il freddo o il dolore, il caldo o il tempo che passava. Ha perso l'aereo per tornare a casa e la possibilità di gettare la spugna in una sola notte di delirio. Poi, quando tutto si è calmato e il silenzio è sceso è arrivata. La paura acre, una mannaia tra capo e collo, il crollo come un castello di carte sotto uno sbuffo capriccioso. Le dissero che era normale, il potere dell'adrenalina, le dissero che era stata brava a reggere e non farsi prendere dal panico e che era fortunata. Fortunata.

Oggi però non si sente fortunata, la gola le fa male ma non è la cosa peggiore di tutte. È il senso di completa impotenza, di avere ragione e allo stesso tempo di non avere potere. Non è dio, anche se ha tenuto i fili della vita delle persone più di una volta non può salvarli tutti. Ma non lo sopporta. Non sopporta quella dannata malattia e non sopporta che le venga impedito di curare qualcuno. Lo attaccherebbe ad un lettino tentando l'impossibile per quell'anno che gli resta se solo le fosse permesso, ma lei non è dio e la vita delle persone non sono il suo parco giochi. Non ne può disporre e non può obbligare nessuno a farsi salvare. Può solo sperare, aiutare fino a dove permesso a tenerlo in vita il tempo che deciderà di vivere, di combattere, per salvare l'unica cosa che valga la pena salvare.

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Addormentarsi sul pavimento freddo è fin troppo facile se ci si sente al sicuro, ma non c'è posto abbastanza distante o riparato dove non arrivino i sogni. Spalanca gli occhi verdi sul buio che la circonda, il respiro annodato in gola fa ancora un po' male. Il suono di passi spedisce un brivido inquieto lungo la colonna vertebrale e si allunga a cercare la pistola che non trova.

- Tienila sempre con te.
 
La voce di Victor le rimbalza tra le pareti del cranio svuotate dalla stanchezza. La luce arriva all'improvviso e delinea una sagoma alta, robusta, familiare. La camminata sicura è un po' la sua, ha imparato ad emularlo da ragazzina ma c'è un velo di minaccia. Si alza, pronta ad incassare ma la mano che le afferra la gola la inchioda spalle alla parete e ce la incassa come fosse di sabbia. Indossa una fede d'oro lucida e i dettagli che prima chiamavano un nome ora si accavallano ad un secondo. Occhi azzurri che la fissano, l'attraversano da parte a parte stringendo le viscere in una morsa di confusione, la furia di un uomo col tempo contato richiama alla memoria quella di un uomo la cui passione e il cui amore erano già scaduti da un pezzo, per venire assorbiti da un rimpianto che non conosce sollievo.
- You can't save them all, little sister
- But I can bloody well try!

venerdì, gennaio 26

Il posto perfetto

26.01.2027 

E’ la quarta volta che si rigira sul divano che non è suo. Il respiro denso che viene dalla camera da letto penetra tra le tempie e la tiene con lo sguardo spalancato mentre macina costantemente idee. E’ da quando ha intrecciato i passi di Julia che ci pensa. E peggio ha iniziato a metterli verde su bianco – e poi verde su verde – dopo che Irene le ha ceduto un paio di fogli colorati che hanno cavato dalla testa altre cose, tra la lista di quello che serve, dove può reperirle, come arrivare ad ottenerle senza doversi esporre. Ha promesso un profilo basso, ha promesso un posto che non causi problemi e non attiri attenzioni indesiderate e ci sta mettendo il cuore. Sbuffa. La coperta è diventata un bozzolo in cui si è annodata. Scalcia per trovare aria, insofferente, incapace di aspettare la mattina. Ha la trepidazione di un bambino che aspetta Babbo Natale ma è troppo maledettamente testarda per farsi aggredire dagli assalti del sonno alle spalle. 

Pianta i piedi scalzi a terra e si issa a sedere sul divano. Lo sguardo allargato è vivo e animoso, si fissa sul buio fino a che non definisce con certezza le forme, abbastanza per poterle schivare senza rimetterci una rotula non essendo uno spazio che le è completamente familiare. Si alza, lascia che la coperta sbrogli la matassa da sola raccogliendosi attorno le caviglie per abbandonarla lì come una seconda pelle e strisciare verso la camera da letto. Dal respiro che sente ancora chiaro sa che quella povera anima che le ha dato un divano per la notte sta dormendo sonoramente, ma non ce la fa. Da quando erano bambini lei è la sua spina nel fianco, qualcosa che ti da fastidio ma di cui non riesci a liberarti e alla fine diventa una simbiosi anomala e sbagliata ma pur sempre un legame. Pianta le ginocchia sulla piazza libera, si allunga sulle coperte e striscia fino a guadagnare il fianco, bloccandolo. Gli occhi piantati sul profilo che piano piano emerge nelle ombre della sera densa. Sorride, colpevole e ruffiana allo stesso tempo. Si sporge, soffia piano un richiamo quasi uggiolato, come i cani che grattano alla porta o ti fissano con il guinzaglio in bocca. Un respiro più profondo degli altri, un movimento più coordinato, sono i sintomi che qualcosa ha fatto breccia. Si sposta da sopra le coperte, si infila sotto e il tepore ammansisce i muscoli, senza però riuscire a scalfire la determinazione di essere una rompipalle. 

Ogni femmina sa diventare approfittatrice se torna comodo e quando si conoscono i propri polli le cose diventano sempre più facili. E’ come un copione già scritto, ripetuto e ripassato fino a sapere a memoria le parti di entrambi. Nel dormiveglia è come un cucciolo che si muove a casaccio, per quanto le mani grandi non abbiano nulla dell’innocenza di un animaletto, anche la vicinanza non si sporca di intenzioni a cui debba porre rimedio. 

- Mi serve un favore... 
- Mh? 
- Mi serve un favore... 
- Non ora... 

La voce impastata biascica e struscia le sillabe, il respiro le si infrange contro il collo, le mani le spostano i capelli e la barba struscia contro la pelle senza pungere perchè troppo lunga per risultare ispida. Lei lo lascia fare, lascia che si prenda spazio, che metabolizzi le sue intenzioni senza opposizioni dure, senza muri contro cui rimbalzare. Lo accompagna verso quello che le serve, un po’ più manipolatoria del solito ma per una causa che le batte in testa come un martello pneumatico. Quando la preme con le spalle sul letto e la sovrasta lei ha un sorriso aperto ma che fende il buio come la lama di luce attraverso le imposte al mattino arriva a pungere con allegria. Una mano le mappa il fianco sinistro, l’altra trova l’interruttore della luce sul comodino. Gli occhi che la fissano sono piccoli e sospettosi, incrostati di sonno e arrendevolezza. 

- Cosa vuoi Cor? 
- Mi accompagni a casa? 
- Oh Jesus Christ, can’t you wait until morning? 
- No. 

La risolutezza che gli sbatte in faccia è come una secchiata di acqua gelata. Sbuffa, borbotta, appoggia la fronte contro il suo sterno e nasconde il viso facendo i capricci come un bambino. Qualsiasi tensione potesse esserci è andata spegnendosi in quel preciso istante, con una sola sillaba che spezza l’equilibrio e la vede troneggiare ancora una volta con il carattere di merda che si ritrova.

- Ti odio. 
- Lo so, mi accompagni? 
- Ovviamente. 

La voce è ovattata, le parla contro il torace, mordendo la maglietta che indossa per scaricare un po’ di frustrazione, giusto quell’animosità che avrebbe chiunque nel venire svegliato apposta solo per essere rotto le scatole. Lei però lo coccola, con una gratitudine che non esprime a parole ma fa filtrare tra i gesti, le dita che passano tra le ciocche troppo lunghe, che cercano di far emergere il broncio dal proprio sterno e costringerlo ad impattare fronte contro fronte, stampando piccoli baci puliti a casaccio prima di lasciarlo vestirsi in santa pace, senza mettergli più fretta nonostante stia fremendo sotto pelle e abbia già acceso la seconda sigaretta in poco tempo. 

Correndo su per le scale per poco non si cappotta, inciampando. Si tuffa in casa con la furia di un tornado, buttandosi nell’armadio per uscirne con addosso discutibili combinazioni di pezzi che per lo più appartenevano ad altri in altre epoche storiche quando le mode erano... altre. La povera anima che ha svegliato dal proprio sonno ad aspettarla sotto con il pick up blu a motore ancora acceso perchè in fondo non ci doveva mettere poi tantissimo. Il gruignito indisposto lo scioglie con l’entusiasmo di una ragazzina che si fionda sul sedile unico che unisce guidatore e passeggero spalmando un bacio che sa di pane e marmellata sulla guancia barbuta. 

- Hai preso quello che ti serve? 
- Sìììììì! 
- Devi smetterla con gli zuccheri cazzo 
- E tu smettila con il broncio, ormai il sonno è andato, rassegnati e guarda che bella giornata! 
- Fa un freddo cane. 
- Mantiene meglio, avanti passiamo da Paddy che voglio vedere se ha ancora quelle vecchie latte di vernice per interni. 
Come un capitano sulla prua di una nave punta all’orizzonte e segna la rotta, entusiasta e piena di emozioni positive nonostante l’impegno che si delinea tra fogli verdi e fazzoletti dello Starbucks sia tutt’altro che semplice. Lui che la conosce sa che non ci sono Santi che possano opporsi alla sua cocciutaggine, non quando è in modalità uragano. Ma lui deve tornare a lavoro, l’officina ha bisogno di lui per cui l’abbandona a metà strada, lasciandola a scarpinare i restanti due blocchi come una scolaretta diretta alla lezione. La sera prima si è segnata i riferimenti, adesso sa come trovare il suo punto perfetto e da lì è tutta discesa.


martedì, gennaio 23

Familiar faces worn out places

23.01.2027
Doveva solo comprare le sigarette. Invece si è trovata praticamente prelevata sotto casa senza una spiegazione e senza un motivo tangibile, qualcosa che valesse la pena davvero. All'inizio, come ogni cosa nuova stile Paese delle Meraviglie, per un attimo solo ha creduto che potesse essere una buona giornata, ma poi Lui le ha ricordato che tutto quello che inizia a merda finisce peggio.

Ha perso la cognizione di quanto tempo sia passato e quanto asfalto abbia calpestato, quante volte si sia girata su sè stessa a controllare, cercare segni di un passaggio, qualcosa di familiare in un dedalo di strade ma alla fine ha risolto nella maniera più semplice. Cinque sigarette dopo ha smaltito in parte. La mano è tornata ferma ma lo stomaco resta chiuso. Nel profondo sta ancora inveendo contro Maximilian Ethan Lee e le sue idee del cazzo – che sembrano tanto un fottuto rapimento -, ma almeno all’esterno è calma, abbastanza da cercare di accostarsi a qualcuno che si fa i fatti propri, offrire una sigaretta e chiedere per favore se potrebbe indicarle la via più facile per uscire dal Groundwater, il cui nome nemmeno sa. Sa solo che è un posto di cui, fuori da lì, non dovrà più ricordarsi. Un posto neutrale come aveva cercato ma che, ora come ora, non è così sicura di voler frequentare. E sale di nuovo, un fremito di rabbia che chiude i pugni e le spalma sulla bocca un sorriso plastico. Sfiata una risata nervosa e si scusa ma alla fine la via gliela indicano. Da lì fa un paio di passi, si volta e poi torna indietro per lasciare il pacchetto come un ringraziamento aggiuntivo, tenendo solo una sigaretta per sè. E con il ringraziamento aggiuntivo arriva anche una richiesta goliardica, che però ha un preciso scopo: trovare un tabaccaio vero significa raggiungere una zona che non sia supposta come Deserto. Si accoda alle risate corali, almeno sulle prime, ma poi lo sguardo sbattuto e la stanchezza sembrano attecchire e far sfumare il tutto in una sequenza di occhiate dubbiose che hanno il netto sapore del ‘ci è o ci fa?’. 

- Seriamente, come ci arrivo a piedi?
La pazienza che le riservano è una manna dal cielo. Non avrebbe sopportato ancora di doversi ergere contro l’ennesima testa di cazzo saputella. Memorizza ogni passaggio e quello che non riesce a memorizzare se lo scrive sull’avambraccio, dovendo ripetere fino allo sfinimento che ‘sì, ha il permesso e no, non causa guai ma sì, se vogliono chiedessero a Lee’. Quando passa oltre tutto e ritrova l’aperto il sole è già sparito dietro le rovine e lascia il cielo ancora acceso, il tempo di prendere quei punti di riferimento e farci un percorso, fidandosi esclusivamente di quello che le è stato detto. Testa bassa e scarponi ormai impolverati, la sicurezza della pistola incastrata tra le costole e la marcia, con una canzone tra le sinapsi che rimbalza. Era da un po’ che non camminava così tanto, ma quando smetti di pensare e vai in automatico, puoi fare un sacco di cose. Come obnubilare un intera mattinata buttata al cesso per... niente, se non un principio di ulcera probabilmente. E non ha mai smesso di ringraziare che le cabine non siano state dismesse. Fruga nelle tasche e recupera quanto serve per fare una chiamata, una sola, un numero che digita di riflesso senza pensare. Suona. Suona ancora e quando risponde la voce che non sentiva da troppo ha un’esitazione.

- H-hey, it’s... ahm, me, Cori... potresti venirmi a prendere? Sono... 

Si guarda attorno. Sfarfalla le ciglia per mettere a fuoco i cartelli stradali, a caccia di vie che non hanno più nome. Trova un’insegna, un riferimento, un nome e semplicemente resta ad aspettare, rigirando quella sigaretta tra le dita, aspettando per accenderla fino a che non è troppo tardi. Chiude gli occhi, improvvisamente esausta, così tanto da non riuscire a reggere la testa che ciondola fino ad impattare con la nuca contro la seranda polverosa e rovinata in un suono troppo forte e che riecheggia vuoto oltre i vetri infranti di quello che un tempo era un barbiere. Incastra il filtro all’angolo delle labbra e cerca l’accedino. Stanca. Svuotata dal costante scornarsi con un essere dalla testa dura quanto la sua, sgradevole fin dentro le ossa. Lo sente ancora bruciare nella pancia, il fastidio che ha ingoiato e il veleno che ha sputato. Non sente fame, pur essendo ormai calata la sera e passate ore dall’ultima volta che ha mangiato qualcosa. La testa naviga in un senso di insoddisfazione che aveva dimenticato ed è riemerso, prepotente e feroce nelle ultime 24-48 ore. Ripercorre i propri passi indietro e poi di nuovo avanti e non trova giustificazioni, nè per sè stessa, ma tantomeno per lui. 

Quando sente il rombo della moto solleva la testa di scatto e di nuovo tira una testata, che non fa nemmeno male tanto sono ovattate le sensazioni. Mette a fuoco il profilo del rider e poi semplicemente si issa, per caracollare poco dopo alle sue spalle, slanciando la gamba per finire sulla sua sella, le braccia allacciate e il muso nascosto dietro la schiena, la guancia premuta contro la toppa sulla giacca di pelle. Riapre gli occhi e il soffitto su cui li spalanca non è il suo, così come non è sua la tazza di caffè che fa capolino sopra la sua testa e altrettanto non è sua la faccia che la segue. La barba troppo lunga, così come i capelli e la voce scura che le da il buongiorno anche se è sera, nemmeno troppo tarda. 


- Quanto ho dormito? 
- Solo un’oretta, niente di che 
- Right... I – ehm – grazie per, insomma... 
- Yea, don’t mention it. So... come stai? 

Solo ora, che è rannicchiata sul divano di un altra persona si rende conto che erano anni che non lo vedeva e che nonostante il tempo sia passato non è cambiato di una virgola, a parte la barba troppo lunga e così i capelli. E’ imbarazzata, di essere corllata davanti a lui, di mostrarsi stanca e abbattuta da una giornata o una serie di giornate come ne ha affrontate tante. 

- Sto invecchiando 
- A me sembri sempre la stessa, Cor 
- Yeah well... not likely. So... tu come stai? 

L’aria impacciata inizia a dissiparsi solo quando partono gli aneddoti di quando erano ragazzi, e da lì è tutta discesa anche senza alcol. Si affaccia fuori dalla finestra e non riconosce nulla perchè non è come quando erano ragazzi, il Pocket lui lo ha lasciato da tempo per infilarsi in affari di cui non vuole sapere nulla nella North Town, ma la moto è rimasta, tenuta ancora come fosse la cosa più preziosa dell’universo. E poi le sovviene, un lampo. E’ dalla mattina che è fuori casa e non ha controllato la segreteria. 

- Posso usare il tuo telefono? 

L’assenso arriva sotto lo scroscio della doccia e si sposta in punta di piedi per non fare troppo rumore. Ascolta i messaggi rigirando una ciocca attorno le dita e quando arriva alla fine è già un turbine mentre si riveste, inciampando e sbattendo il ginocchio contro lo spigolo del letto. Saltella per abbottonarsi i jeans e si affaccia al bagno implorando un passaggio per questioni lavorative che però tiene per sè. Un po’ si sente in colpa a mettergli fretta. Quando la scarica davanti allo Shamrock con le raccomandazioni del caso pizzica un sorriso gentile, sinceramente apprezzando la cortesia.

- Chiamami quando hai fatto, qualsiasi cosa sia che devi fare... 

Apprezza il fatto che non abbia chiesto, così come quello di restare nei paraggi nel caso di bisogno. Svuota i polmoni, calca il cappellino in testa e si infila nel locale, per ottenere altre indicazioni e capire da lì come muoversi.

Acqua e whiskey

23.04.2027

Quando rimette piede in casa mancano una manciata di ore all’alba. Getta le chiavi sul mobiletto accanto l’ingresso e si trascina fino al bagno. La luce, quando accesa, ronza e la costringe a chiudere gli occhi e schermarsi il viso, alcune tracce di sangue sulla manica del trench le ricordano che non è stata una buona giornata. Apre l’acqua, lo scroscio gelido richiede un po’ di tempo perchè arrivi alla temperatura che le serve e si prende quel tempo per iniziare a spogliarsi. Il trench è da buttare, i fori e le chiazze di sangue non passerebbero inosservate. Svuota le tasche con metodo e lo getta in un angolo. Il maglione scuro è quello che più le dispiace, era di Mark, uno di quelli che gli aveva fregato anni addietro e ancora lo teneva con molta cura. Fa passare le dita tra i fori incrostati di sangue rappreso, il suo sangue, non quello di qualcun’altro stavolta. Il maglione lo lascia cadere in un catino, scegliendo di cercare di porre rimedio. Jeans, maglietta, intimo. Tutto il resto finisce nella pila da buttare, bruciare nel bidone dei rifiuti. Cammina scalza per casa raggiungendo la radio che accende a caccia di una di quelle frequenze nostalgiche capaci di mettere molta musica e zero chiacchiere per tutta la notte. Quando la becca le strappa un sorriso, la canzone “Girl you’ll be a woman soon” ha qualcosa di terribilmente familiare che però va oltre la gara di bevute con un figlio di Ade. Misura gli spazi che conosce come le proprie tasche, ritrova una dimensione che ha il sapore della sicurezza, per quanto da una parte nella testa la voce della coscienza le ricordi che non è al sicuro da nessuna parte. Apre un sorriso, fugace, ferito prima di versare due dita di whiskey in un tumbler di cristallo vecchio quanto la sua bisnonna e tornare in bagno.

Il bicchiere appoggiato in bilico sul bordo, l’acqua bollente che scorre addosso ma l’odore resta. Un odore pungente, fossilizzato, che non ha nulla a che vedere con i sapori provati qualche ora prima. Non una pinta in compagnia di una ricercata allo Shamrock con un cadavere nel bagagliaio, non il sangue e la nausea, l’acidità a raschiare le corde vocali. Non l’adrenalina, lo sforzo, l’asfalto viscido, i liquami di vicoli abbandonati a loro stessi tra sporcizia e animali. E’ un odore che le si è piantato nel cranio la prima settimana passata in Sierra Leone. L’odore che ha il terreno zuppo di sangue ed escrementi, talmente duro e secco, privo di acqua, da assorbire ogni cosa e diventare plasmabile come la creta ma il tanfo... quello ti si infila nel naso e brucia i recettori.

- Chiamami se senti odore di merda.


Così le ha detto Legion mentre spariva nel tramonto, infiammato dai riflessi di un sole morente. Avrebbe voluto rispondere a quella Shell che non lo sa più distinguere, l’odore di merda da qualsiasi altro odore, perchè quello non se lo leva più dalla testa, dall’anima. Alla fine ha optato per la risposta diplomatica, tranquillizzante. Sotto il getto d’acqua non importa quanto sapone usi, l’odore di morte non se lo leva dalla testa. Una morte che valeva...

- Cento fottuti dollari... così poco vale una vita in quel posto

Non riesce ancora a crederci. Se li avesse avuti li avrebbe spesi, ma con quale rassicurazione? Ed è stato tutto per nulla. Si tocca il fianco, tra le cicatrici vecchie non ce ne sono di nuove solo per merito di Routh. C’è un angolo di lei che continua a ripetersi di non fidarsi, che probabilmente l’ha aiutata solo per tornaconto personale, o per senso di colpa. Scrolla la testa, rannicchiandosi sotto il getto che inizia a diventare freddo. E’ un’ora che sta sotto l’acqua e i pensieri ancora non se ne sono andati, il sonno non arriva e la voglia di vomitare non passa.



Fa un passo fuori dalla vasca, la radio ha cambiato regime, un lento, infinitamente triste, un Nat King Cole d’annata con quella voce inconfondibile riempie le stanze vuote di una casa assolutamente immobile, improvvisamente troppo fredda. Il senso di oppressione le chiude il petto. Ingolla il liquore e lascia il bicchiere accanto a quello dello spazzolino, solleva lo sguardo torbido a specchiarsi e quello che vede è il profilo di qualcuno che non riconosce. Ha spaccato il braccio ad un uomo. Ne è assolutamente certa, un uomo che stava solo facendo il suo lavoro... ma un lavoro che porta ad uccidere persone per soldi si può definire tale? Se non si fosse intromessa forse...

- Shit

Avvolta nell’asciugamano verde chiaro si china sulla tazza, raccoglie i capelli e ricaccia anche l’anima. Solo bile, paura e cattive sensazioni, assieme ad un paio di mix alcolici poco rassicuranti. Ha le lacrime agli occhi, frustrazione, insoddisfazione personale, dispiacere. Tossisce convulsamente fino a sentire male alle costole. Tira lo sciacquone e si alza, si mette a sedere sulla tavoletta chiusa e aspetta che tutto si plachi, in un rituale che ormai ha radicato nel sangue. Asciuga i capelli, si butta addosso una felpa, un paio di pantaloni di una vecchia tuta. Carezza il fianco distesa sul divano, la coperta tirata su. Le dita toccano pelle integra lì dove bruciava il piombo e sprizzava sangue. E da lì inizia la conta, passando sulla cicatrice del cesareo, quella di quando le hanno rimosso la milza spappolata, di quando si è presa la prima ‘pungicata’ per essersi messa in mezzo affari che non la riguardavano. Risale con le dita lunghe, nodose e forti nonostante paiano fragili come il vetro. Un buco di proiettile alla spalla sinistra, attraversata da parte a parte, uno al polmone destro, uno alla bocca dello stomaco. Il braccio spezzato, la lacerazione del polpaccio sinistro per colpa del filo spinato, il buco lasciato dai chiodi nella coscia destra quando si è spaccata il femore. Il novanta per cento dei segni che ha addosso se li è presi per lo stesso identico motivo: incapace di stare al proprio posto.

- You never learn little sister


Trasale di colpo, spalanca gli occhi e si guarda attorno, stordita. Il cuore in gola, violento, feroce e una sensazione di smarrimento che prevalica ogni altra cosa. Si guarda a destra, a sinistra, apre le porte, spalanca ogni finestra lasciando entrare la luce di un mattino cupo e freddo ma di lui non c’è traccia. Si è addormentata contando le cicatrici come fossero percorelle. Una manciata di tranquillanti, mezzo dito di whiskey e il desiderio bruciante di tornare a dormire sul divano fino all’alba del giorno dopo ma il suo cervello già sta macinando. Idee, pensieri: propositi. Ha smesso di credere nei propositi per il nuovo anno, lo ha detto a Darius mentre lo visitava con le costole rotte e l’ennesima sequela di lividi. Alza lo sguardo e inquadra il biglietto da visita, un numero che durerà due settimane ha detto la shell. Un numero che infila nella tasca della giacca quando esce di casa sbattendo la porta con una manciata di ore di sonno sulle spalle e troppi pensieri ad appesantire il cuore. Ha finito le sigarette.

sabato, gennaio 20

Sonni e Sogni

Fissa in silenzio e per lungo tempo la bottiglia svuotata sul bancone del Man of Mayham. L'etichetta trasversale del Johnny Walker Red Label spellata per un angolo contro cui infierisce con le unghie piatte, nervosamente. Lo sguardo ha un guizzo, con la coda dell'occhio osserva le lucciole, le scintille di un mal di testa galoppante in arrivo e inquadra la sagoma scura del telefono appeso dietro il banco alla parete. Quando ascolta il suono dello squillo che riecheggia lungo la  linea e si rende conto di che ore siano è già tardi. La voce che risponde dall'altro capo è impastata e sonnolenta.

- Ehi, scusa io...
- Cori?
- Yes, senti mi spiace non so perchè ho...
- Va tutto bene?
- Yes, I guess... I just...

Esita a lungo, non sa nemmeno più per quale motivo si è attaccata a quella cornetta che ora le scivola dall'orecchio, con un sospiro arreso fino a che la vocetta non irrompe dall'altro capo lamentando di mostri sotto al letto e l'incapacità di andare a dormire e ricorda esattamente cosa l'abbia spinta a fare quella maledetta telefonata.

- Can I speak to him?
- A quest'ora non lo so Cori
- Please

Non ha mai implorato con un tono così dismesso di potergli parlare, non ci ha mai messo così trasporto ed è proprio quello che lascia il suo ex marito in tensione, sospeso, per una manciata di secondi prima di arrendersi.

- Mummy?
- Hey baby

---

Quando si rannicchia sulla brandina che ha nel retro del locale lo fa con la testa pesante e il cuore affondato, oberato da una mancanza che credeva di poter sostenere fino al pomeriggio di quello stesso giorno quando ha incrociato la strada di un uomo e i suoi due bambini, un uomo che ha fatto scelte difficili ma non quella di lasciare i suoi cuccioli.
Infila la mano sotto al cuscino, trovando la familiare e consolante presenza della pistola e della bibbia, così come le hanno insegnato, così come si è abituata a fare per poter davvero chiudere gli occhi, pregando di non sognare.

Ma ogni volta lo fa.
Sogna.

I calzini allineati sulla coperta ad uncinetto che la nonna le ha fatto quando aveva dieci anni e ancora regge, le magliette tra cui non sa scegliere e la musica troppo alta che fa ruotare con pazienza infinita lo sguardo appannato di una Nan ormai avanti con gli anni ma non per questo più flessibile su certe cose. Le ha lasciato una bibbia dalla copertina nera tra gli oggetti da mettere in valigia, perchè, a detta sua, l'unico modo per affrontare l'inferno in cui ci si avventura è con l'aiuto e col consiglio di dio. 
L'arrivo di Mark è inaspettato, anche se vissuto infinite volte nei sempre ricorrenti sogni. La felpa dei Philadelphia Eagles, i jeans strappati e il sorriso da schiaffi, l'invito a lasciar perdere, il suo trascinarla sempre fuori carreggiata, lontana dalla strada che sceglie di percorrere, per trovare scorciatoie, esplorare altre opzioni. Il cielo stellato sul Pocket ha sempre l'odore di erba, forte, pungente perchè non metteva mai abbastanza tabacco. 

- Così hai deciso, mh?
- Sì, è quello che voglio fare.
- Certo, l'Africa...
- Tu sei ancora convinto di volerci andare?

Idealisti. Così li ha cresciuti Nan. Entrambi convinti e determinati a seguire la strada che desideravano, entrambi abbastanza forti per costruirla qualora non esistesse. Lo ricorda ancora, il respiro profondo che fece Mark prima di infilare il braccio sotto la sua testa e tirarsela vicina, per baciarla tra i capelli che all'epoca portava corti e iniziare a cantare. Aveva una bella voce all'epoca, leggera come lo era il suo spirito nonostante tutto. Lei ha sempre saputo che quando Mark iniziava a cantare era per non dover ripetere qualcosa che già conoscevano entrambi. Il suo odore è qualcosa che sente di tanto in tanto camminando per strada. Scatena ricordi feroci ma allo stesso tempo dolci, come lo fa il tatuaggio sul polpaccio sinisitro: due frecce incrociate, una data di nascita e un 'Little Sister' scritto elegante, fatto assieme a lui quando compì 18 anni, il suo primo.
In quell'abbraccio ricorda chiaramente di essersi addormentata, senza finire di preparare la borsa con la macchina che passava a prenderla alle 8 di mattina per iniziare la sua nuova esperienza con Emergency. Il prossimo cielo sotto cui avrebbe dormito sarebbe stato quello Africano per i successivi tre mesi. 

Rigirandosi nella brandina il cigolio delle molle le rievoca l'ennesimo flash che si mischia ai sogni. Nel sonno turbato e pesante, si confondono i momenti belli con quelli spaventosi. Il ricordo di una tenda, l'aria irrespirabile, il dolore della prima scheggia che ancora morde il fianco di tanto in tanto. La febbre alta e le dita intrecciate saldamente a quelle di un soldato, addormentato al suo fianco nei momenti in cui poteva permettersi di essere lì. Anche quegli odori sono impressi a fuoco nella memoria, l'ospedale civile non ha la stessa acredine, nemmeno la sala operatoria puzza alla stessa maniera. E lui aveva un buon odore, era una ventata d'aria fresca dove il tanfo diventa normalità. In qualche modo le ricordava Mark ma c'era una punta di cuoio in più, più scuro e denso, e il fratello aveva una nota di dolcezza che Cian invece non aveva. Erano differenti ma davano la stessa strana sensazione di sicurezza. 
Il retrogusto asprigno lo davano le sue piastrine, metallico ma non come il sangue. Il ricordo di come le finivano tra le labbra le soventi volte in cui si intrufolava sotto le sue lenzuola quando ormai le ferite erano cicatrici. I tentativi di fare piano, l'incosciente stupidità della giovinezza e la ricerca di qualsiasi brivido ricordasse di essere vivi, fino a sfiorare il proibito e rischiare di venire spediti a casa a calci in culo, insubordinati da inquadrare in caselline troppo strette. Aveva anche un buon sapore, oltre che un odore piacevolmente diverso dalla terra pregna di sangue e sabbia. Non aveva bisogno di un improbabile test di gravidanza per capire di essere incinta, inaspettatamente. Non ha mai provato il brivido di pisciare su una striscetta di reagente, era più semplice controllarsi da soli, almeno lo era lì, in un buco di posto disperso tra un villaggio affamato e una zona di guerriglia aperta. Di certo non poteva andarsene in città a fare una scampagnata, non con l'ultimo convoglio di mucchi d'ossa a malapena in grado di tenersi in piedi da soli da dover visitare e vaccinare. Era la terza volta che tornava in Africa e doveva starci per altri tre mesi, ma il suo stato interessante avrebbe cambiato le cose. O meglio, le cambiò per Cian. Non era pronta alla proposta quando arrivò, ma non seppe dire di no all'anello della nonna piazzato sotto al naso, con tanto di genuflessione in mezzo all'ospedale da campo con tutti gli occhi addosso. Eppure sapeva che nulla di buono può mai venire da un posto infernale come quello, la nonna glielo aveva detto. La normalità che li attendeva di ritorno non era tagliata per nessuno dei due. La bella casa, seppur modesta, un marito gentile ma per lo più non innamorato e un bambino tutto suo da poter accudire non riuscivano in nessun modo a riempire il vuoto pulsante, la sensazione di aver lasciato un lavoro a metà, incompiuto, di essere scappata.

Il sonno senza sogni è qualcosa che ha lasciato sotto i cieli tersi africani. Gli stati uniti sono solo un nugolo di ripensamenti, turbamenti e insicurezze, come la scelta di licenziarsi dalle Thorne Industries? No. Quella era stata una delle poche scelte coerenti fatte da quando è tornata negli states. L'unica sterzata violenta che l'ha rimessa sulla giusta carreggiata, non sogna la Thorne, perchè almeno su quel fronte la sua coscienza adesso è a posto.

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- Mi canti una canzone mummy?
- Sure baby... 

martedì, gennaio 2

Sempre seguire il piano

01.01.2027
Ancora una volta finisce per svegliarsi di soprassalto, gli occhi verdi spalancati, le pupille dilatate per assorbire quanta più luce possibile senza trovare che una falce di luminescenza artificiale fare capolino da sotto la porta. Placa il respiro e pulisce le lacrime accumulate agli angoli con le nocche, prima di rigirarsi sulla poltroncina e cercare di sprofondare nuovamente in quel sonno leggero, facile da spezzare nel caso arrivi un'emergenza.
Se l'era figurato diversamente come passare il primo del nuovo anno. Di sicuro non voleva essere svegliata alle 9 di mattina e trascinata in chiesa con solo una manciata di ore sul groppone, a preparare pentoloni di stufato, apparecchiare tavoloni, farsi rimpallare a destra e sinistra, dove serve serve.
Quella parentesi pomeridiana in compagnia di Mare per quanto di certo non leggera negli argomenti, assiepata tra le tante annose questioni etiche e morali che si ritrova a fronteggiare da sola, davanti ad uno specchio, ogni mattina. Troppi caffè, ma questo non è cambiato dall'anno prima. Altrettante sigarette, idem. L'urgenza di dare una mano sempre e comunque che non si sradica dal suo io più profondo, la plasma e la rende semplicemente quella che è. Cori. Corey. Dottoressa Holden.
Alla Thorne non voleva tornare. Da qualche parte il suo sesto senso e quell'istinto di sopravvivenza che in lei è sottosviluppato gridavano di restarsene nel South-Side. Di andare a fare il giro delle cliniche con cui collabora per aiutare, passare pomeriggio e sera a badare a raffreddori, anziani troppo stanchi, visite di routine. Invece no.

Appena messo piede nel building, raggiunti gli uffici, le notizie di lavoro le piovono tra capo e collo. Gli esami da fare sulla nuova droga bussano alla nuca, soprattutto in virtù di quello che accade alle persone che l'assumono. In quel laboratorio non doveva starci, se lo sentiva nelle ossa, ma che diavolo poteva succedere lì, al sicuro? Una mascherina difettosa, ecco cosa. Se fossero rimasti i soli primi effetti della droga, non le sarebbe dispiaciuto. Quel mondo perfetto senza fame, senza lotte. La famiglia, tutta la famiglia, vasta, felice, unita. Il solo pensiero di quella visione le chiude le viscere in una morsa che fa salire di nuovo la nausea e il sapore amaro di sangue e bava. Non ci sono state conseguenze, non letali, ma in fondo al cuore l'esperienza si è depositata, aspettando gli strati di polvere e la routine che la seppellisca del tutto.
Tira su col naso. Rigirandosi ancora e ancora. Sarebbe dovuta andare a casa dopo l'esperienza ad un passo dal collasso completo del proprio corpo ma no. L'unico modo per risollevarsi è riprendere a fare quello che si fa sempre e lo ha imparato presto. Dopo il primo viaggio in Sierra Leone, dopo il primo proiettile rovente in corpo, dopo la prima scheggia di granata. Nella penombra a cui si è abituata carezza le cicatrici, una per una sopra i vestiti. Quando arriva a quella sul ventre ha un brivido. Slancia le gambe e si tuffa a premere l'interruttore, inondare la stanza di luce led bianchissima e farsi abbagliare per una manciata di secondi. Acqua gelata in faccia, a ricacciare indietro le immagini di bambini, i suoi bambini, carne e sangue. Indurisce la linea delle spalle, quella delle labbra reagisce di riflesso e arriva, con un sospiro di sollievo. Arriva la bussata.

- Dottoressa Holden c'è bisogno di lei
- Arrivo

Chiude l'acqua, solleva la testa. Il respiro le gonfia il petto e torna in apnea, a lavorare, a sgobbare fino ad annullare ogni pensiero e lasciare che sia la meccanica abitudinaria a dettare ogni movimento. Però una cosa deve davvero segnarsela addosso, come tanti altri tatuaggi che le colorano la pelle: 'Seguire sempre il piano'.



lunedì, gennaio 1

L'alba di un nuovo giorno

Qualche ora prima del 01.01.2027

A buttarla giù dal divano, anche rovinosamente, è la bussata vigorosa che le rimbomba dentro casa, quieta, silente come dovrebbe essere. Gattona, incastrata tra la copertina, cercando di liberarsi e mettere a fuoco. Sul pianerottolo si sentono risate, echi di voci familiari che la fanno rantolare stancamente, implorando in cuor suo la madonna di farla svanire nel nulla, per ancora qualche ora.

L'idea di fingersi morta, imitando un opossum, le carezza la mente ma poi si ritrova già in piedi con la mano sulla maniglia e una parte di sè che grida all'allarme. Non fa in tempo ad aprire che casa è invasa, amici e parenti a riversarsi nel piccolo appartamento, accendere ogni luce possibile e immaginabile, trascinarla in camera - questo solo un paio di amiche - e cambiarla. Non sa nemmeno come diavolo sia possibile che in meno di mezz'ora sia in strada, vestita di tutto punto, trascinata praticamente per il collo a fare il giro dei Pub Irlandesi dal Pocket fino al Withman e ritorno. 

Il 'Golden Mile' è qualcosa che pensava potesse esistere solo nei film come The World's End, e da qualche parte in lei sa di aver abbandonato l'età della stupidità, e con essa le serate di pub crawling ma a quanto pare quest'anno hanno deciso - senza interpellarla - che si torna indietro ad adolescenti idioti. I primi due li sostiene anche abbastanza bene. Dal terzo inizia a rallentare i ritmi, consapevole di non aver mangiato gran che una volta rientra in casa dal turno di notte in ospedale. Al tentativo di appuntare che è una persona seria - LEI - il boato che le esplode attorno inneggia a pagare pegno per la codardia. A testa china non può far altro che buttare giù un mix di scotch e tabasco vomitevole, ma capace di rivitalizzare per un po' la lucidità illogica della serata.

Qualcosa la mette sicuramente sotto i denti, così come riesce anche ad identificare chiaramente un paio di passaggi in cui è dovuta intervenire per cercare di evitare che qualcuno finisse per crollare malamente. In tasca ha il telefono di qualcun'altro, ma non importa perchè tanto le chiamate sono tutte a numeri fissi, famiglie che conosce da una vita, fratelli non di sangue ma di elezione, d'origine. 

L'alba del nuovo anno l'osserva dalle sponde del Delaware, ed ha il sapore di qualcosa di radicato e familiare, capace di scaldarle il cuore più di quanto l'alcol le abbia scaldato le vene. Poi c'è un evidente vuoto. Le scintille colorate di fuochi d'artificio, strette, abbracci e baci calorosi, ma poi il vuoto vero. Almeno fino a che non percepisce nettamente di venire sollevata di peso. Quando riesce a scollare gli occhi, inquadra il profilo torbido e anniebbiato:

- Mark?

La voce non sembra nemmeno la sua. Ha cantato troppo, pagato troppi pegni perchè le corde vocali non siano strinate. Sforza la vista e piano piano i contorni sfumati del fratello vengono annullati da un viso altrettanto familiare e un sorriso gentile.

- Mikey

C'era quasi, qualche lettera in comune ma un mondo di distanza. L'uomo annuisce, e senza dire una parola, prelevata dal bancone del suo pub, l'accompagna a coricarsi su di una brandina di fortuna nel retro del locale. Non è nuova a quel genere di risveglio, tanto che ha la propria coperta in quel posto, un regalo che le fece la nonna e anche ancora tiene botta.

- Thanks
- Happy New Year kiddow

La mano ruvida ma calda le carezza i capelli, aiutandola a ritrovare il respiro pesante. L'ultimo sguardo è su di un uomo che si appoggia stancamente alla parete, che incrocia le braccia dai tatuaggi cancellati sul petto e osserva in silenzio, per un po' il riflesso metallico di un secchio appoggiato vicino a lei per qualsiasi evenienza: sia mai abbia smesso di reggere.